Interessante pronuncia della Corte di Cassazione (sentenza n. 5930 del 28 febbraio 2019) in tema di accertamento doganali e relazioni OLAF. Per i Supremi Giudici, l’Agenzia delle Dogane può utilizzare gli atti ispettivi OLAF come base per gli avvisi di accertamento, ma solo se sono precisi e dettagliati.
Per la Corte infatti, “senza dubbio l’atto che – per la sua tipologia, quale caratterizzata dalle forme procedimentali – più si avvicina ai rapporti OLAF è il processo verbale di constatazione”. Come per i PVC dell’Agenzia delle Entrate quindi, bisogna separare le circostanze che i funzionari verbalizzanti attestano direttamente da quelle che invece sono state da loro solo conosciute.
Per gli Ermellini, le valutazioni che non vengono fatte direttamente dall’OLAF, non fanno piena prova nel processo tributario ma si pongono in una posizione diversa perché costituiscono elementi (prove) che sono direttamente apprezzabili dal giudice, alla luce di tutti gli altri elementi e circostanze del caso concreto che sono riferite allo specifico soggetto verificato. Ma i Giudici di legittimità vanno ancora oltre perché, se da un lato affermano che le relazioni OLAF fanno piena prova di quanto in esse contenuto, dall’altro limitano questa portata probatoria a quelle relazioni che sono precise, dettagliate e circostanziate. Non tutte quindi assumono questo rango di prova ma solo quelle dotate di queste caratteristiche. Per completezza, si riporta il caso sottoposto all’attenzione dei Giudici che era quello di una contestazione mossa dall’Agenzia delle Dogane nei confronti di una impresa italiana che aveva acquistato da una società estera prodotti in acciaio dichiarati, all’atto dell’importazione, come sudcoreani. La contestazione dell’Ufficio impositore si poggiava sul fatto che le merci non erano state riconosciute come sudcoreane ma come prodotte in Cina, con tutto quello che ne consegue in tema di pagamento di dazi antidumping. Alla base della ripresa a tassazione, vi era la segnalazione dell’OLAF (Ufficio europeo antifrode) che era stata previamente trasmessa all’Agenzia delle Dogane che proprio su di essa aveva basato il suo avviso di accertamento.
In vista dell’uscita della Regno Unito dall’Unione Europea che, salvo sorprese dell’ultima ora, dovrebbe verificarsi il 30 marzo 2019, l’Agenzia delle Dogane ha pubblicato le linee guida sulle movimentazioni commerciali di prodotti sottoposti ad accisa da e verso il Regno Unito.
Le stesse si riferiscono, in particolare, ai regimi doganali applicabili alle bevande alcoliche sia per le ipotesi di uscita che per quelle di introduzione dei beni nel territorio italiano.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4384 del 14 febbraio 2019, ha stabilito che, se i certificati di origine preferenziale sono falsi, è legittima la ripresa a tassazione solo dei maggiori dazi ma non dell’IVA all’importazione Vediamo come i Supremi Giudici sono arrivati a stabilire che la falsità dei certificati EUR 1 comporta “la perdita dell’esenzione daziaria” ma “non implica necessariamente anche quella dell’IVA all’importazione qualora tale imposta sia stata comunque assolta secondo il modulo dell’inversione contabile all’atto dell’estrazione delle merci dal deposito IVA”. L’applicazione del meccanismo del reverse charge comporta di per sé l’assolvimento dell’imposta e, per tale ragione, costituisce un mero illecito fiscale di natura formale la mancata introduzione fisica dei beni nel deposito. Per i giudici quindi, non è possibile il recupero dell’imposta non versata nello sdoganamento. Ricordiamo che, ai sensi dell’art. 13 del D. Lgs. 471/1997 (ritardati o omessi versamenti diretti), la sanzione è compresa tra il 15% e il 30% dell’IVA all’importazione se la regolarizzazione avviene entro 15 giorni dall’annotazione dell’autofattura nei registri contabili. Per la Cassazione quindi, non vi è tassazione anche dell’IVA – pagata con il reverse charge – perché questo costituirebbe doppia imposizione. La fattispecie sottoposta all’esame dei Giudici è quella di una verifica fiscale operata dall’Agenzia delle Dogane che riteneva irregolari delle prove EUR 1 relative a merce da immettere fisicamente in un deposito IVA, su cui però andava poi applicato il reverse charge. Per l’Agenzia fiscale andava ripresa a tassazione l’IVA all’importazione perché assimilata ai diritti di confine a causa del disconoscimento dei certificati di circolazione, necessari per il godimento delle agevolazione daziarie. I giudici hanno invece ritenuto di separare le violazioni doganali, quelle relativi ai dazi e agli altri diritti di confine, dall’applicazione dell’IVA all’importazione, che risulta già pagata proprio per l’applicazione del reverse charge sull’estrazione dei beni dal deposito. Sempre la Cassazione, con la sentenza n. 4052 del 12 febbraio 2019, aveva stabilito che “nel caso in cui le merci provenienti da paesi al di fuori dell’unione europea siano state immesse in libera pratica con il pagamento in dogana dei soli dazi per essere destinate all’introduzione in un deposito fiscale, introduzione poi mai avvenuta, e sempre che l’IVA sia stata in concreto assolta con il meccanismo dell’inversione contabile previsto dall’art. 17 comma 2 DPR n. 633/1972, l’agenzia doganale non può procedere all’emissione di un atto impositivo per il recupero dell’IVA non versata in dogana”.
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